martedì 18 marzo 2014

Nel nome del Padre

Papà, sublime parola racchiusa nel tuo cuore,
Angelo che segretamente guida i tuoi passi
e vive della tua vita
pronto a sempre dare senza mai nulla chiedere.
Il sacrificio quotidiano del suo lavoro 
ti sia d'esempio.
E quando un giorno sarai chiamato al compimento dei tuoi doveri,
capirai soltanto allora quanto sia stato grande il suo amore.

Ho imparato questa poesia quando ero ancora una bambina, e poi me la sono ritrovata "spiaccicata" su una maiolica appesa al muro di casa per anni e anni.
Il mito del padre. Io l'ho vissuto eccome!
 Domani sarà il 19 marzo, la Festa dei papà, per me la più insulsa e inutile che possa esserci.
Ma chi il padre non l'ha più o non l'ha mai avuto? E' poi necessario continuare a incensare un ricordo quando la sola assenza diventa così dolorosa che alle volte quel dolore è quasi palpabile?
Come un passero
a caccia 
di briciole di pane,
mendico
le tue parole
per inventarti in me.
E Tu, che padre sei stato?
Sì, è bello ricordarti divertente, scanzonato, sicuro di te. Tanto brillante da offuscare persino chi avevi intorno.
Ma non sei stato solo quello, io lo so bene, perché ti ho vissuto a 360 gradi, e voglio che ogni sfumatura di te sia ricordata, senza risparmiarci niente. Perché tu eri tutto e anche di più, con tanti pregi ma anche difetti.
Sono stata la primogenita e forse anche un po' ribelle, ma io ricordo bene la tua austerità, il tuo volermi imporre regole anche in maniera a volte violenta. Ricordo come ti arrabbiavi perché non dormivo la notte, perché non volevo stare sola nella mia camera enorme e troppo vicina alle scale da cui, secondo la mia fantasia, avrebbe potuto salire chiunque.
Chiamavo la mamma, o, anche se dormivo nel mio lettino vicino al vostro, ancora non mi sentivo sicura e cercavo con lei un contatto fisico.
"Mamma, mammina, mi dai la manina?" E tu t'incazzavi come una iena perché eri stanco e avevi bisogno di dormire. Una volta mi tirasti contro uno scarpone e , sbagliando mira, colpisti al fianco la nonna Giulia che ebbe un attacco di fegato. Un altra volta fu la mia bella bambola negra a finire in frantumi contro il muro. Oppure, ma quello solo durante la bella stagione, mi prendevi e mi trascinavi giù per le scale fino alla porticina in fondo all'orto e mi sbattevi fuori di casa, dove c'erano ancora le vigne e il porcile della Irma "la maialara" come la chiamavamo noi. E a poco valevano le intercessioni della mamma.
"Pappino non lo faccio più, te lo giuro!" Ma immancabilmente poi succedeva di nuovo.
Pappà, io avevo semplicemente paura del buio, tutto qua, e ce l'ho ancora.
Ma ti sbagli se pensi che io per questo ti abbia portato rancore, anzi. Ti ho sempre capito, ti ho sempre scusato e quel colpevolizzarmi, quel cercare sempre di essere più assomigliante a come mi volevi, mi è senz'altro servito a fare di me una persona migliore, più forte. A fare di me quella che sono ora, quindi te ne ringrazio.
E c'è anche un'altra parte di te che IO ho vissuto, e che mi ha temprata. E' quella più fragile, quello che sei diventato prima di gettare completamente le armi.
E che fosse per la malattia, per la stanchezza del vivere, o per aver perso la facoltà di dominare eventi e persone poco importa. Le cose ti erano sfuggite di mano e con queste ti scappava via la vita.
Non riconoscevo te in quell'uomo che si fermava sulle soglie delle case quasi smarrito, per riprendere fiato. O in quello che andava piangendo da un'amico all'altro in cerca di aiuto e conforto.
Dismessa la corazza da guerriero ti ritrovavi nella tua impudica nudità fragile, impaurito, quasi come lo ero stata io da bambina quando nel buio cercavo te.E ti ho amato ancora di più!
Eppure ti ho tradito, ti ho consapevolmente lasciato solo proprio nel momento dell'ultimo passaggio che io sapevo bene avresti compiuto. Me lo sentivo che quel giorno, quando l'ambulanza venne a prenderti, sarebbe stata l'ultima volta che ti vedevo. Tu mi guardasti e facesti un mesto "ciao " con la mano.Ma entrambe sapevamo. Ne avevamo parlato, io e te da soli, tante e tante volte.E sapevo anche che, al momento del passaggio estremo, io non ci sarei stata.
Avevo la febbre, è vero, ma era quasi una febbre indotta, cercata, quasi un alibi.  La verità è che io non volevo che tu te ne andassi, non volevo arrendermi alla tua resa.
Ti ho lasciato andare, senza starti vicino all'ultimo momento, e questa è una cosa che mi porterò dietro per tutta la vita, non me la perdonerò mai. Ma, ti ricordi pappà? Io ho paura del buio, e con te ho perso l'unico faro che illuminava la mia vita.
Perché ho voluto scrivere queste cose e perché proprio ora credimi, non lo so.Ma so che un ritratto di te incompleto non ti avrebbe reso giustizia. Tu eri anche questo ed è giusto ricordarlo: dolce e iroso, forte e fragile, tenero e intollerante.
Non eri un mito, eri semplicemente un uomo, un uomo vero. Eri il mio pappà. E mi manchi tanto!

Annullare il presente
e ricopiare i tuoi passi
padrona del mio passato,
per scoprire infine
dov'è che ti nascondi.
Come se fossi l'aria
e non ti fai respirare.
Come acqua tra le mie dita
te ne scivoli via
e sempre è sete di te
Perla

sabato 8 marzo 2014

8 Marzo - Parafrasando Kipling


NEL GIORNO DELLE DONNE, QUELLO CHE LE DONNE POTREBBERO DEDICARE AI FIGLI:



Se rinuncerai all'idea dell'incontrollato e selvaggio dominio sulla natura e, insieme, alla cieca e utopistica sottomissione a essa, tenendoti equidistante dai febbrili interventisti e dagli estremisti della cautela.
Se abbraccerai la filosofia del rispetto, mettendo da parte quella dello sfruttamento e quella della rinuncia.
Se vivrai con ricchezza le diversità di altre culture e di altre specie e saprai guardare a esse con occhio curioso e non infastidito.
Se saprai perdere la corona di re del creato senza sentirti sminuito dalla perdita.
Se capirai che essere fratello delle altre specie e custode della Terra è meglio che esserne padrone.
Se imparerai che la nuova frontiera sta prima di tutto dentro alla tua mente e al tuo cuore.
Se sviluppo non significherà per te il guadagno e il consumo sfrenato e senza limiti, ma una più intelligente e misurata gestione delle risorse.
Se la paura della crisi ecologica non riuscirà ad atterrirti perché starai lavorando per scongiurarla.
Se il nemico cesserà di essere qualcuno al di fuori perché saprai riconoscerlo nella parte più oscura di te stesso.
Se saprai praticare, con creatività e umiltà, la protezione e insieme la trasformazione dell'ambiente che ti circonda, accettando la necessità di regole poste nell'interesse di tutti e a garanzia della libertà di ciascuno.
Se andando verso il futuro non cesserai di coltivare la memoria del passato.
Se ami il prossimo tuo come te stesso e sei conscio che il prossimo tuo è più ampio della specie umana.
Se saprai fare tutto questo, allora avrai imparato a godere insieme con tutte le altre creature i beni del mondo e, quel che è più importante, ti sarai avvicinato di più al sentire delle donne figlio mio, e il mondo sarà migliore.


                                          Liberamente tratto da . " L'Airone 100"

venerdì 7 marzo 2014

La Gigantessa

Se torno indietro con la mente, ma tanto, tanto indietro, non ho alcun dubbio nel riconoscere in Lei il mio primo, grande modello di vita e l'affetto più caro della mia infanzia.
Lei era mia nonna materna e si chiamava Annunziata, detta la Nonziatona o, in viareggino "vulgaris" : la Buo di Fero, probabilmente per la sua imponenza fisica o perché, quando radunava in casa le sua amiche per la Tombola, vinceva quasi sempre.
Io l'adoravo, forse perché le sono nata in casa (narra la leggenda che per far luce alla  levatrice, in difficoltà nell'estrarre da mamma i miei cinque chili, lei con una candela le abbia strinato un orecchio) o perché lei con me non ha mai alzato la voce, o semplicemente perché, ai miei occhi di bambina, lei era mitica.
Alta, imponente, bellissima, con una bianca crocchia di capelli raccolti dietro la nuca e due grandi, profondi, vellutati occhi neri. Non ricordo di averla mai vista adirata né l'ho mai sentita lamentarsi, anzi!
Abitava col nonno Sandro, detto Sandorino per la sua costituzione minuta, nella centrale Via Cavallotti, a pochi passi dalla Misericordia che allora era un punto di ritrovo oltre che di soccorso, e dove mio padre prestava il suo aiuto come autista di ambulanze. Ma noi vi andavamo anche alla sera per seguire le prime puntate di "Lascia o raddoppia" dal televisore del salone ricreativo. La casa della nonna era freddissima. Due stanze, salottino e cucina al termine di un androne enorme da cui partiva uno scalone di granito scuro che portava alle camere del primo piano, una a destra e l'altra a sinistra, più un gabinetto annesso.
Ma poi proseguiva fino al secondo piano dove, in un altro appartamento, abitava con i figli la signora Rina, amica della nonna.
Quando dormivamo là, pur essendo in camera con mamma e papà, ero ossessionata da quel via vai di gente su e giù per le scale in comune dalle quali ci proteggeva solo una porta di legno che neanche si chiudeva tanto bene. E, come se non bastasse, mi avevano raccontato che il sottoscala, tetro e buio, celava un passaggio segreto cui si accedeva da una botola nel pavimento (che io avevo veramente visto), che conduceva direttamente a uno sbocco sul vicino mare, ed era servito, in tempo di guerra, come via di fuga.
Anche il salotto di nonna era di passaggio, ma da li transitavano solo lo zio Fulvio ( il fratello maggiore di mamma detto Catullo), la zia Tiziana, e mia cugina Anna Grazia, che abitavano in fondo all'orto della nonna in una casetta minuscola, su due piani, che io adoravo, perché la vedevo come una casa di bambole e dove, una volta grande e indipendente, avrei voluto abitare per stare vicina alla nonna.
In effetti vivere li non era molto agevole, anzi, non lo era per niente.Senza riscaldamento, senza acqua corrente, cosa che costringeva la zia a venire con un grosso secchio al rubinetto della nonna per prendere l'acqua che poi, in casa, avrebbe usato per la cucina, il lavarsi o anche solo il bere ( che l'acqua in bottiglia neanche sapevamo cos'era) attingendo da questi con un ramaiolo di rame. Scomodissima, certo, ma ai miei occhi di bambina tutto si trasformava in favola.
E nel cucinone con i fornelli a legna, quasi sempre accesi anche solo per un po' d'acqua calda, c'era lei, la mia nonna cara. Quanto bene le ho voluto, anzi, ci siamo volute, perché io ero senz'altro la sua nipote preferita.
Se mamma e papà volevano uscire e mi lasciavano da lei, io ero felice, non facevo storie. Mi rifugiavo sotto il tavolo di cucina nella cuccia che dividevo con il mio adorato Bobi, il bastardino tutto pelo bianco e marrone che mio padre aveva preso dopo la mia nascita e che viveva con la nonna. Oppure la guardavo cucinare, che era bravissima, altrimenti giocavo con lei a carte. Mi ha insegnato il Rubamonte, la Bazzica, la Scopa, la Primiera, e anche a barare segnalando le carte con i vari segni del viso.
Quando poi non c'era nessuno a farle visita, che chissà perché qualcuno arrivava sempre, allora mi raccontava dei tempi andati , della sua vita di contadina e del nonno, di come l'aveva conosciuto, di quanto fosse bellino, con due ganascine bianche e rosse come due melini e gli occhietti celesti e vivi.
E accompagnava il tutto intonando qualcuno degli stornelli che lei ben conosceva e cantava con voce forte e intonata,
Tutti nel vicinato le volevano bene ed era un punto di riferimento per tutti.
Ricordo come fosse ora una sua nipote, Anna, che piangendo venne a confessarle di essere rimasta incinta, e di temere per la reazione dei suoi. Ma la nonna la rassicurò e le dette la forza per tirare avanti a testa alta prospettandole un futuro d'amore. E così e stato.
Lei non si sgomentava mai e accorreva ovunque ci fosse bisogno, dal letto delle partorienti ( ne sa qualcosa mia cugina Liviana che mi racconta sempre come dopo la nascita di Livio, riuscì finalmente a farsi il primo sonno ristoratore solo perché del piccolo, nella nottata, si era occupata mia nonna, ) così come al capezzale dei morenti, tanto che mio zio Alfredo, il fratello più grande di mio padre, morì, malato ai polmoni, spirando tra le sue braccia.
Era forte mia nonna, energica e decisa. Ricordo che, all'inizio della bella stagione, la trovavo nell'orto sotto il bellissimo pergolato d'uva fragola, pezzuola in testa e mani tuffate in nuvole di lana o crine che lei cardava per rinfrescare le materasse. Oppure, all'ombra del grande fico, gettare acqua calda sulla cenere che ricopriva le lenzuola a mollo nel grande catino di coccio, e che lei lavava anche per altri.
In inverno ci accoglieva con scaldini ricolmi di brace cui poggiavo i piedi intirizziti e, se solo accennavo a un po' di bronchite, non c'era scampo, mi stioccava  sul petto un impiastro caldo e puzzolente di semi di lino e via, la cura era fatta. Sarà a causa di quello che le tette mi sono cresciute così tanto?
Era povera la nonna, ché il nonno, per quel che ne so, non era mai stato un gran lavoratore. Ma da mangiare da lei non mancava mai, perché i suoi parenti contadini, riconoscenti di quello che lei per loro aveva fatto, le davano sempre qualcosa.
Erano una grande e numerosa famiglia i Lombardi : la Teré, la Mirella, la Silvana con la schiena piegata in due dal lavoro dei campi, Bruno di Capocchia, Raffellino detto "hai sentuto". E i pranzi festivi erano un trionfo di piatti tradizionali. Tordelli fatti in casa, il sugo di coniglio per i maccheroni, i matuffi, il pollo fritto coi carciofi e il brodo col collo ripieno della gallina e la pancetta legata col filo grosso. Era uno spettacolo poi quando , col filo tenuto tra i denti, tagliava la polenta. Non ho mai capito come facesse!
Poi tirava fuori dalla madia di cucina il suo profumatissimo pane, e da sotto l'acquaio l'immancabile fiasco del vino, che si diceva "del nostro.E come dimenticare quando arrivava dalla campagna con sulla testa una tavola appoggiata al cercine, con sopra quattro, cinque, e anche più torte di pasqua fatte da lei e poi cotte nel forno di Bruno.
Si, era povera la nonna, ma con lei anche la merenda era sempre una festa : bastavano due fette di pane con burro e zucchero, e se mancava il burro si bagnavano le fette con l'acqua e lo zucchero stava su ugualmente, o, in alternativa, un po' di   olio, sale, e aceto.Ma quando le restava un soldino in tasca, mi prendeva per mano e mi portava alla pizzeria in Via Battisti,quella davanti al Centralino e mi comprava le frittelle di riso di cui ero e sono ahimè golosa. Poi mi chiedeva :"Lo voi vede' Magisti ( Maciste n. d. r. )Allora mi portava al cinema e diceva al Romboni, la maschera :"La poi fa' entrà un popò la mi nepote che vol vedè il Cine? Danni un' occhiata te eh?" E neanche lui le diceva mai di no.
Ma nonostante tutta la sua energia, la nonna non stava bene. Aveva delle ulcere nelle gambe che le arrivavano dal ginocchio fino alla caviglia. Erano terribili, enormi piaghe aperte che, non so perché, non le si chiudevano mai.Eppure l'ho ben presente davanti agli occhi quando, noi abitavamo ormai qui al Campo d'Aviazione, e lei si presentava al cancello di casa con la sua borsona nera di finta pelle, un cappottone che lei diceva di Siliski (che non ho mai capito che razza di pelo fosse), e il fedele Bobi accanto con la lingua penzoloni per la fatica. Ritta imperterrita, come se niente fosse, si era fatta tutta la strada a piedi per venire a dare una mano alla sua Pierina.Panni da lavare, da stirare, non si tirava mai indietro. Lei faceva finta di niente, ma quando alla sera si ritirava in bagno, e , sedutasi su uno sgabello, si sfasciava le gambe per medicarle, io inorridivo nel vedere quelle piaghe purulente su cui versava acqua ossigenata che ribolliva e schiumava finché, non la toglieva con il cotone per poi ricoprirla con una pomata giallastra che puzzava di zolfo. Una volta rifasciate le gambe via, era pronta a ripartire.
No, mia madre non aveva il carattere di nonna, da lei ha ereditato solo la passione per la cucina. Ma mia nonna era un'altra cosa. Analfabeta, sì, come gran parte delle persone all'epoca, ma a far di conti non la batteva nessuno. Lei era forte, sicura, non si piangeva mai addosso, non si lamentava. Una gigantessa decisa ed energica, anche se, qualche volta, l'ho vista piangere per il figlio maggiore, Fabio, emigrato in Argentina in cerca di fortuna e di cui raramente aveva avuto notizie.
Ora devo dire una cosa, io ero piccola, è vero, e tante cose non potevo capirle, ma io lo leggevo il suo dolore quando ne parlava con la mamma, e notavo ogni tanto il suo sguardo perso nel nulla quando si rannicchiava nel suo scialle vicino al fuoco, con in mano il "caldanino". Sono certa, non so perché, che il suo pensiero in quel momento arrivasse là, oltre oceano, inseguendo il ricordo di quel figlio lontano.
Anche per questo, per la sua sofferenza palesata senza alcun pudore,ho tanto amato mia nonna e la amo tutt'ora.
E' morta che io avevo quattordici anni e facevo le scuole medie.Una volta ogni tanto, quando uscivo da scuola, andavo in bici a trovarla e mangiavo con lei che, con il nonno ormai semi infermo, non usciva quasi più di camera e cucinava su un fornellino a gas.
"E' qualche giorno che non sto bene" mi disse. "Ho sempre un mal di testa che non mi passa neanche con lAspro, e il mangiare mi cresce in bocca.
Io non ci feci caso più di tanto e la salutai promettendole di tornare presto. Fu l'ultima volta che la vidi.
Due giorni dopo, tornando da scuola, la mamma mi disse che la nonna era morta, che le si era staccato un embolo.Io non ci capii niente, neanche sapevo cos'era un embolo. Ma ricordo perfettamente il dolore forte che provai, come una pugnalata in mezzo al petto. Il mio primo confronto con la morte, e se ci penso quel dolore lo sento ancora.
L'ho amata tanto, mi è mancata tanto, e l'ho invocata talmente tanto e tanto spesso che una volta, molti anni dopo ormai sposa e madre, nel mezzo di una notte non proprio serena, l'ho vista bene, seduta ai piedi del mio letto, che mi sorrideva rassicurante. Poi si è alzata e, carezzandomi il viso, mi ha sorriso come a dire: tranquilla, io sono con te!
Io quella carezza l'ho sentita davvero, e non m'importa niente se qualcuno non ci crede. Così come non m'importa niente di chi può pensare di lei diversamente da me. Non si deve tradire la memoria delle persone.
" Insinonnoe la vita che d'è!" direbbe se fosse viva.
Lei mi dava sicurezza, era la mia nonnona e guai a chi me la tocca.
Ho scritto questo anche per mio fratello, che essendo più piccolo, si è lamentato di ricordarla poco.
Ricordala Duilio, ricordala così come io te l'ho descritta perché lei, che ci voleva tanto bene, indubbiamente lo merita.


Quando, nella sua forza inesauribili, 
la Natura, ogni giorno nuovi figli
mostruosi concepiva, avrei voluto
vivere accanto ad una gigantessa
giovane, come un gatto voluttuoso
di una regina ai piedi. Avrei voluto
veder con la sua anima fiorire
il suo corpo, e crescere, spontaneo
in terribili giochi; indovinare
se il suo cuore una fosca fiamma covi
dalle umide nebbie fluttuanti
dentro i suoi occhi, le sue forme  splendide
percorrere, scalare, arrampicato, 
il pendio delle sue ginocchia enormi, 
e talvolta, d'estate, quando i soli
malsani la costringono a distendersi, 
stanca, attraverso la campagna, all'ombra
dei suoi seni dormire pigramente
come ai piedi di un monte un quieto tetto.

                                                                    La Gigantessa  di  Charles Baudelaire

lunedì 3 marzo 2014

Basta poco....(Perché amo Febbraio)..

E se altro non fosse 
che una spia di cielo
tra voli di magnolie

o una goccia di giallo
sul nero velluto 
di un merlo
.............
un gioco di sole
nelle palpebre chiuse
per rinascere dal mare.
                                                                 Perla

Amo febbraio. Lo so, suona strano, perché siamo nel "crudo del'inverno" e le temperature sono, in linea di massima, le più basse della stagione. Ma questo è un mese vivo, frizzante, allegro certo più del malinconico novembre, dello stressante dicembre o del tedioso gennaio.
Quando arrivi a febbraio ti sembra che il più sia passato, è come aver scollettato il monte, ti senti in discesa.
Anche se impercettibilmente le giornate si allungano, hanno un'altra luce, e gli uccelli riprendono i loro melodiosi canti.
Febbraio è anche il mese in cui sono nata, il mese dell'Acquario, fatto di persone ottimiste, 
altruiste, tutte protese verso il futuro e verso il prossimo.( Sembra, al contrario di quel che si pensa, fosse anche il mese di Gesù, o almeno così ho letto in più di un libro.)
E' anche il mese in cui la terra si risveglia dal suo torpore e sulle piante esplodono le prime gemme. E poi, tra un soffio di libeccio e una manciata di coriandoli, arriva Re Carnevale, e l'atmosfera si riempe di canti, frizzi e lazzi.
Puoi anche non aver voglia di partecipare alla follia collettiva, ma la musica è nell'aria e ti coinvolge, non c'è niente da fare. Basta poco, una spruzzata di sole tra una nuvola e l'altra, e Viareggio, come me, si risveglia.
Sì, indubbiamente il febbraio vissuto su questi lidi ha un che di particolare, ma se siamo stati fortunati a nascere qui mica è colpa nostra.
E poco importa se, approfittando di un po' di sereno tra un acquazzone e l'altro, sono qui in giardino a tendere il bucato e i si congelano le chiappe, lo so che questo è un mese "corto e maledetto", ma ha di bello che dura poco.
Tra poco arriverà marzo matto che libererà il sole di prigionia e il cuore acquisterà un nuovo battito. Si vive sempre nella speranza del meglio, facendosi bastare il poco tirando avanti anche con niente, Anche la mia Viareggio è così, frivola, estroversa, timida e rabbiosa, giocosa e blasfema,Ma vuole essere amata.
Viareggio mi assomiglia.


E' come una donna:
La vuoi dolce, perversa,
con i jeans o la gonna,
timida o estroversa?

E' pudica e villana,
è vanesia e pensosa,
è suadente e ruffiana,
avvincente ed odiosa.

Se t'immergi da solo
nei profumi ch'effonde,
trovi ad ovest il molo
tra gli effluvi dell'onde.

Dagli ombrosi ritrovi
fatti pure incantare,
ma dopo i pini ed i rovi
t'affacci ancora sul mare .

Che Viareggio ti piaccia 
o ti disponga al rancore'
basta aprire le braccia
e ti entra nel cuore.

                                                 Perla