venerdì 7 marzo 2014

La Gigantessa

Se torno indietro con la mente, ma tanto, tanto indietro, non ho alcun dubbio nel riconoscere in Lei il mio primo, grande modello di vita e l'affetto più caro della mia infanzia.
Lei era mia nonna materna e si chiamava Annunziata, detta la Nonziatona o, in viareggino "vulgaris" : la Buo di Fero, probabilmente per la sua imponenza fisica o perché, quando radunava in casa le sua amiche per la Tombola, vinceva quasi sempre.
Io l'adoravo, forse perché le sono nata in casa (narra la leggenda che per far luce alla  levatrice, in difficoltà nell'estrarre da mamma i miei cinque chili, lei con una candela le abbia strinato un orecchio) o perché lei con me non ha mai alzato la voce, o semplicemente perché, ai miei occhi di bambina, lei era mitica.
Alta, imponente, bellissima, con una bianca crocchia di capelli raccolti dietro la nuca e due grandi, profondi, vellutati occhi neri. Non ricordo di averla mai vista adirata né l'ho mai sentita lamentarsi, anzi!
Abitava col nonno Sandro, detto Sandorino per la sua costituzione minuta, nella centrale Via Cavallotti, a pochi passi dalla Misericordia che allora era un punto di ritrovo oltre che di soccorso, e dove mio padre prestava il suo aiuto come autista di ambulanze. Ma noi vi andavamo anche alla sera per seguire le prime puntate di "Lascia o raddoppia" dal televisore del salone ricreativo. La casa della nonna era freddissima. Due stanze, salottino e cucina al termine di un androne enorme da cui partiva uno scalone di granito scuro che portava alle camere del primo piano, una a destra e l'altra a sinistra, più un gabinetto annesso.
Ma poi proseguiva fino al secondo piano dove, in un altro appartamento, abitava con i figli la signora Rina, amica della nonna.
Quando dormivamo là, pur essendo in camera con mamma e papà, ero ossessionata da quel via vai di gente su e giù per le scale in comune dalle quali ci proteggeva solo una porta di legno che neanche si chiudeva tanto bene. E, come se non bastasse, mi avevano raccontato che il sottoscala, tetro e buio, celava un passaggio segreto cui si accedeva da una botola nel pavimento (che io avevo veramente visto), che conduceva direttamente a uno sbocco sul vicino mare, ed era servito, in tempo di guerra, come via di fuga.
Anche il salotto di nonna era di passaggio, ma da li transitavano solo lo zio Fulvio ( il fratello maggiore di mamma detto Catullo), la zia Tiziana, e mia cugina Anna Grazia, che abitavano in fondo all'orto della nonna in una casetta minuscola, su due piani, che io adoravo, perché la vedevo come una casa di bambole e dove, una volta grande e indipendente, avrei voluto abitare per stare vicina alla nonna.
In effetti vivere li non era molto agevole, anzi, non lo era per niente.Senza riscaldamento, senza acqua corrente, cosa che costringeva la zia a venire con un grosso secchio al rubinetto della nonna per prendere l'acqua che poi, in casa, avrebbe usato per la cucina, il lavarsi o anche solo il bere ( che l'acqua in bottiglia neanche sapevamo cos'era) attingendo da questi con un ramaiolo di rame. Scomodissima, certo, ma ai miei occhi di bambina tutto si trasformava in favola.
E nel cucinone con i fornelli a legna, quasi sempre accesi anche solo per un po' d'acqua calda, c'era lei, la mia nonna cara. Quanto bene le ho voluto, anzi, ci siamo volute, perché io ero senz'altro la sua nipote preferita.
Se mamma e papà volevano uscire e mi lasciavano da lei, io ero felice, non facevo storie. Mi rifugiavo sotto il tavolo di cucina nella cuccia che dividevo con il mio adorato Bobi, il bastardino tutto pelo bianco e marrone che mio padre aveva preso dopo la mia nascita e che viveva con la nonna. Oppure la guardavo cucinare, che era bravissima, altrimenti giocavo con lei a carte. Mi ha insegnato il Rubamonte, la Bazzica, la Scopa, la Primiera, e anche a barare segnalando le carte con i vari segni del viso.
Quando poi non c'era nessuno a farle visita, che chissà perché qualcuno arrivava sempre, allora mi raccontava dei tempi andati , della sua vita di contadina e del nonno, di come l'aveva conosciuto, di quanto fosse bellino, con due ganascine bianche e rosse come due melini e gli occhietti celesti e vivi.
E accompagnava il tutto intonando qualcuno degli stornelli che lei ben conosceva e cantava con voce forte e intonata,
Tutti nel vicinato le volevano bene ed era un punto di riferimento per tutti.
Ricordo come fosse ora una sua nipote, Anna, che piangendo venne a confessarle di essere rimasta incinta, e di temere per la reazione dei suoi. Ma la nonna la rassicurò e le dette la forza per tirare avanti a testa alta prospettandole un futuro d'amore. E così e stato.
Lei non si sgomentava mai e accorreva ovunque ci fosse bisogno, dal letto delle partorienti ( ne sa qualcosa mia cugina Liviana che mi racconta sempre come dopo la nascita di Livio, riuscì finalmente a farsi il primo sonno ristoratore solo perché del piccolo, nella nottata, si era occupata mia nonna, ) così come al capezzale dei morenti, tanto che mio zio Alfredo, il fratello più grande di mio padre, morì, malato ai polmoni, spirando tra le sue braccia.
Era forte mia nonna, energica e decisa. Ricordo che, all'inizio della bella stagione, la trovavo nell'orto sotto il bellissimo pergolato d'uva fragola, pezzuola in testa e mani tuffate in nuvole di lana o crine che lei cardava per rinfrescare le materasse. Oppure, all'ombra del grande fico, gettare acqua calda sulla cenere che ricopriva le lenzuola a mollo nel grande catino di coccio, e che lei lavava anche per altri.
In inverno ci accoglieva con scaldini ricolmi di brace cui poggiavo i piedi intirizziti e, se solo accennavo a un po' di bronchite, non c'era scampo, mi stioccava  sul petto un impiastro caldo e puzzolente di semi di lino e via, la cura era fatta. Sarà a causa di quello che le tette mi sono cresciute così tanto?
Era povera la nonna, ché il nonno, per quel che ne so, non era mai stato un gran lavoratore. Ma da mangiare da lei non mancava mai, perché i suoi parenti contadini, riconoscenti di quello che lei per loro aveva fatto, le davano sempre qualcosa.
Erano una grande e numerosa famiglia i Lombardi : la Teré, la Mirella, la Silvana con la schiena piegata in due dal lavoro dei campi, Bruno di Capocchia, Raffellino detto "hai sentuto". E i pranzi festivi erano un trionfo di piatti tradizionali. Tordelli fatti in casa, il sugo di coniglio per i maccheroni, i matuffi, il pollo fritto coi carciofi e il brodo col collo ripieno della gallina e la pancetta legata col filo grosso. Era uno spettacolo poi quando , col filo tenuto tra i denti, tagliava la polenta. Non ho mai capito come facesse!
Poi tirava fuori dalla madia di cucina il suo profumatissimo pane, e da sotto l'acquaio l'immancabile fiasco del vino, che si diceva "del nostro.E come dimenticare quando arrivava dalla campagna con sulla testa una tavola appoggiata al cercine, con sopra quattro, cinque, e anche più torte di pasqua fatte da lei e poi cotte nel forno di Bruno.
Si, era povera la nonna, ma con lei anche la merenda era sempre una festa : bastavano due fette di pane con burro e zucchero, e se mancava il burro si bagnavano le fette con l'acqua e lo zucchero stava su ugualmente, o, in alternativa, un po' di   olio, sale, e aceto.Ma quando le restava un soldino in tasca, mi prendeva per mano e mi portava alla pizzeria in Via Battisti,quella davanti al Centralino e mi comprava le frittelle di riso di cui ero e sono ahimè golosa. Poi mi chiedeva :"Lo voi vede' Magisti ( Maciste n. d. r. )Allora mi portava al cinema e diceva al Romboni, la maschera :"La poi fa' entrà un popò la mi nepote che vol vedè il Cine? Danni un' occhiata te eh?" E neanche lui le diceva mai di no.
Ma nonostante tutta la sua energia, la nonna non stava bene. Aveva delle ulcere nelle gambe che le arrivavano dal ginocchio fino alla caviglia. Erano terribili, enormi piaghe aperte che, non so perché, non le si chiudevano mai.Eppure l'ho ben presente davanti agli occhi quando, noi abitavamo ormai qui al Campo d'Aviazione, e lei si presentava al cancello di casa con la sua borsona nera di finta pelle, un cappottone che lei diceva di Siliski (che non ho mai capito che razza di pelo fosse), e il fedele Bobi accanto con la lingua penzoloni per la fatica. Ritta imperterrita, come se niente fosse, si era fatta tutta la strada a piedi per venire a dare una mano alla sua Pierina.Panni da lavare, da stirare, non si tirava mai indietro. Lei faceva finta di niente, ma quando alla sera si ritirava in bagno, e , sedutasi su uno sgabello, si sfasciava le gambe per medicarle, io inorridivo nel vedere quelle piaghe purulente su cui versava acqua ossigenata che ribolliva e schiumava finché, non la toglieva con il cotone per poi ricoprirla con una pomata giallastra che puzzava di zolfo. Una volta rifasciate le gambe via, era pronta a ripartire.
No, mia madre non aveva il carattere di nonna, da lei ha ereditato solo la passione per la cucina. Ma mia nonna era un'altra cosa. Analfabeta, sì, come gran parte delle persone all'epoca, ma a far di conti non la batteva nessuno. Lei era forte, sicura, non si piangeva mai addosso, non si lamentava. Una gigantessa decisa ed energica, anche se, qualche volta, l'ho vista piangere per il figlio maggiore, Fabio, emigrato in Argentina in cerca di fortuna e di cui raramente aveva avuto notizie.
Ora devo dire una cosa, io ero piccola, è vero, e tante cose non potevo capirle, ma io lo leggevo il suo dolore quando ne parlava con la mamma, e notavo ogni tanto il suo sguardo perso nel nulla quando si rannicchiava nel suo scialle vicino al fuoco, con in mano il "caldanino". Sono certa, non so perché, che il suo pensiero in quel momento arrivasse là, oltre oceano, inseguendo il ricordo di quel figlio lontano.
Anche per questo, per la sua sofferenza palesata senza alcun pudore,ho tanto amato mia nonna e la amo tutt'ora.
E' morta che io avevo quattordici anni e facevo le scuole medie.Una volta ogni tanto, quando uscivo da scuola, andavo in bici a trovarla e mangiavo con lei che, con il nonno ormai semi infermo, non usciva quasi più di camera e cucinava su un fornellino a gas.
"E' qualche giorno che non sto bene" mi disse. "Ho sempre un mal di testa che non mi passa neanche con lAspro, e il mangiare mi cresce in bocca.
Io non ci feci caso più di tanto e la salutai promettendole di tornare presto. Fu l'ultima volta che la vidi.
Due giorni dopo, tornando da scuola, la mamma mi disse che la nonna era morta, che le si era staccato un embolo.Io non ci capii niente, neanche sapevo cos'era un embolo. Ma ricordo perfettamente il dolore forte che provai, come una pugnalata in mezzo al petto. Il mio primo confronto con la morte, e se ci penso quel dolore lo sento ancora.
L'ho amata tanto, mi è mancata tanto, e l'ho invocata talmente tanto e tanto spesso che una volta, molti anni dopo ormai sposa e madre, nel mezzo di una notte non proprio serena, l'ho vista bene, seduta ai piedi del mio letto, che mi sorrideva rassicurante. Poi si è alzata e, carezzandomi il viso, mi ha sorriso come a dire: tranquilla, io sono con te!
Io quella carezza l'ho sentita davvero, e non m'importa niente se qualcuno non ci crede. Così come non m'importa niente di chi può pensare di lei diversamente da me. Non si deve tradire la memoria delle persone.
" Insinonnoe la vita che d'è!" direbbe se fosse viva.
Lei mi dava sicurezza, era la mia nonnona e guai a chi me la tocca.
Ho scritto questo anche per mio fratello, che essendo più piccolo, si è lamentato di ricordarla poco.
Ricordala Duilio, ricordala così come io te l'ho descritta perché lei, che ci voleva tanto bene, indubbiamente lo merita.


Quando, nella sua forza inesauribili, 
la Natura, ogni giorno nuovi figli
mostruosi concepiva, avrei voluto
vivere accanto ad una gigantessa
giovane, come un gatto voluttuoso
di una regina ai piedi. Avrei voluto
veder con la sua anima fiorire
il suo corpo, e crescere, spontaneo
in terribili giochi; indovinare
se il suo cuore una fosca fiamma covi
dalle umide nebbie fluttuanti
dentro i suoi occhi, le sue forme  splendide
percorrere, scalare, arrampicato, 
il pendio delle sue ginocchia enormi, 
e talvolta, d'estate, quando i soli
malsani la costringono a distendersi, 
stanca, attraverso la campagna, all'ombra
dei suoi seni dormire pigramente
come ai piedi di un monte un quieto tetto.

                                                                    La Gigantessa  di  Charles Baudelaire

5 commenti:

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  2. In effetti quando i nonni sono morti a pochi mesi di distanza una dall'altro nel 1966 avevo meno di 9 anni ed i miei ricordi sono sfocati e somigliano più a foto in bianco e nero che a film a colori. Sono sicuro di ricordare delle cose, delle scene vissute, ma a volte non so se sono ricordi reali o proiezioni dei racconti ascoltati nel tempo. Alcune delle cose che hai scritto non le sapevo (come quella dello zio Alfredo). La casa la ricordo vagamente e mi piacerebbe vedere com'è ora. So per certo che il ricordo per i nonni, anche se sfumato, è pieno di affetto. Ricordo che gli ho voluto bene e che me ne hanno voluto e che rimpiango di non aver avuto modo di viverli di più e meglio. Grazie di questi ricordi

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    1. Caro il mio Giuseppe, non sai che piacere e che emozione nel leggere le tue parole. Non hai violato proprio niente perché altrimenti non pubblicherei e poi il parere degli amici è sempre gradito, perciò ti prego di continuare. Anzi, visto che ci siamo ritrovati e siamo così vicini, ti invito a farti vivo di persona, così come Livio mi aveva promesso, così facciamo due chiacchiere a voce. Certo non sono quella che ti ricordi, e forse neanche te, ma che importa. L'importante è sentirsi vivi come e forse con più consapevolezza di allora. Grazie per le parole e ricorda che ti aspetto. Un bacio. Alfreda

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  4. Cara Alfreda, sarà un vero piacere venirti a trovare, lunedì mattina mi vedrò' con Livio ,andiamo a fare un giretto in bici, e glielo dico. A presto, Ciao un bacio. Giuseppe

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